Il Farisaismo
Inviato: martedì 26 ottobre 2010, 10:25
LA PREGHIERA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO
XXX Domenica del tempo Ordinario: Luca 18, 9-14
L’evangelista Luca continua oggi la catechesi sulla preghiera introdotta da Gesù già la scorsa Domenica e lo fa presentando la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio.
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano glia altri”. Per comprendere il significato della parabola del fariseo e del pubblicano abbiamo a disposizione questo versetto introduttivo e il versetto conclusivo:”Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. La parabola ci pone di fronte a due atteggiamenti nella preghiera. Luca però dice chiaro che si dovrebbe parlare di due atteggiamenti che rispecchiano il modi di intendere Dio e il prossimo. Il fariseo che presume di sé ed è sicuro della propria giustizia, è anche un giudice zelante e spietato nei confronti del prossimo. La parabola parla di preghiera, ma in realtà la preghiera è rivelatrice di qualcosa d’altro: ciò che va raddrizzato non è il modo di pregare, bensi il modo di concepire Dio e la sua salvezza, se stessi e il prossimo.
E facciamo attenzione a noi stessi, perché il fariseo è per i discepolo di Gesù una specie di simbolo in cui vengono ad assommarsi le nostre storture religiose: Luca ci induce a prestare attenzione a quel fariseo che è dentro ciascuno di noi.
“Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano”. Inizia il fariseo che sta nel primo banco, ritto nella posa solenne della preghiera, ma ritto anche interiormente nella sua autosufficienza, e inizia così: “O Dio, ti ringrazio, perché io non sono come glia altri…” fa risalire a Dio la propria virtù e giustizia, ma questa sua dipendenza da Dio la perde lungo la strada e subito mette avanti il suo spirito di sacrificio, il suo digiuno, la sua osservanza scrupolosa della legge. A parte quel “ti ringrazio” dell’inizio il fariseo non prega: non guarda a Dio, non si confronta con lui, non aspetta nulla da lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta senza amore con gli altri, giudicandoli duramente. Non prega Dio, ma se stesso; il suo non è un dialogo, ma un monologo, la sua non è lode, ma autoincensazione. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Anche un pubblicano sale al tempio a pregare, e il suo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: “O Dio, abbi pietà di me peccatore…”. Dice la verità: è al soldo dei pagani invasori ed è esoso nell’esigere i tributi: è certamente un peccatore. La sua umiltà non consiste nell’abbassarsi: la sua posizione è, infatti, certamente quella che descrive, come anche l’osservanza del fariseo era reale e non ipocrita. Ma il pubblicano è consapevole di essere peccatore, si sente bisognoso di cambiamento, sa di non potere pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. È questa l’umiltà di cui parla la parabola. Ed è questo l’atteggiamento che Gesù loda: non loda la sua vita di pubblicano, come non ha disprezzato le opere del fariseo.
“Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio, nella preghiera e ancor più nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarsene. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri. Il confronto con i peccati degli altri, per quanto veri essi siano, non ci avvicinano al Signore.
Chi prega come il fariseo esce dal tempio senza avere incontrato Dio: “Io non rubo, io non ammazzo”. Va bene, ma non basta questo per avere la coscienza a posto. Tu che fai per gli altri? “Io penso a me”. Non è una virtù: è una colpa. Dio ci chiede cosa facciamo per salvare il prossimo e per salvarci con gli altri.
XXX Domenica del tempo Ordinario: Luca 18, 9-14
L’evangelista Luca continua oggi la catechesi sulla preghiera introdotta da Gesù già la scorsa Domenica e lo fa presentando la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio.
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano glia altri”. Per comprendere il significato della parabola del fariseo e del pubblicano abbiamo a disposizione questo versetto introduttivo e il versetto conclusivo:”Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. La parabola ci pone di fronte a due atteggiamenti nella preghiera. Luca però dice chiaro che si dovrebbe parlare di due atteggiamenti che rispecchiano il modi di intendere Dio e il prossimo. Il fariseo che presume di sé ed è sicuro della propria giustizia, è anche un giudice zelante e spietato nei confronti del prossimo. La parabola parla di preghiera, ma in realtà la preghiera è rivelatrice di qualcosa d’altro: ciò che va raddrizzato non è il modo di pregare, bensi il modo di concepire Dio e la sua salvezza, se stessi e il prossimo.
E facciamo attenzione a noi stessi, perché il fariseo è per i discepolo di Gesù una specie di simbolo in cui vengono ad assommarsi le nostre storture religiose: Luca ci induce a prestare attenzione a quel fariseo che è dentro ciascuno di noi.
“Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano”. Inizia il fariseo che sta nel primo banco, ritto nella posa solenne della preghiera, ma ritto anche interiormente nella sua autosufficienza, e inizia così: “O Dio, ti ringrazio, perché io non sono come glia altri…” fa risalire a Dio la propria virtù e giustizia, ma questa sua dipendenza da Dio la perde lungo la strada e subito mette avanti il suo spirito di sacrificio, il suo digiuno, la sua osservanza scrupolosa della legge. A parte quel “ti ringrazio” dell’inizio il fariseo non prega: non guarda a Dio, non si confronta con lui, non aspetta nulla da lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta senza amore con gli altri, giudicandoli duramente. Non prega Dio, ma se stesso; il suo non è un dialogo, ma un monologo, la sua non è lode, ma autoincensazione. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Anche un pubblicano sale al tempio a pregare, e il suo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: “O Dio, abbi pietà di me peccatore…”. Dice la verità: è al soldo dei pagani invasori ed è esoso nell’esigere i tributi: è certamente un peccatore. La sua umiltà non consiste nell’abbassarsi: la sua posizione è, infatti, certamente quella che descrive, come anche l’osservanza del fariseo era reale e non ipocrita. Ma il pubblicano è consapevole di essere peccatore, si sente bisognoso di cambiamento, sa di non potere pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. È questa l’umiltà di cui parla la parabola. Ed è questo l’atteggiamento che Gesù loda: non loda la sua vita di pubblicano, come non ha disprezzato le opere del fariseo.
“Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio, nella preghiera e ancor più nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarsene. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri. Il confronto con i peccati degli altri, per quanto veri essi siano, non ci avvicinano al Signore.
Chi prega come il fariseo esce dal tempio senza avere incontrato Dio: “Io non rubo, io non ammazzo”. Va bene, ma non basta questo per avere la coscienza a posto. Tu che fai per gli altri? “Io penso a me”. Non è una virtù: è una colpa. Dio ci chiede cosa facciamo per salvare il prossimo e per salvarci con gli altri.