Papa Paolo VI ci chiedeva di essere santi


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Benedetto
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Papa Paolo VI ci chiedeva di essere santi

Messaggio da Benedetto » martedì 26 ottobre 2010, 14:25

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Sabato, 4 Novembre 1972





La Chiesa ha bisogno di santi.

Chi ha capito che cosa sia la Chiesa capisce la forza logica di questa affermazione. Noi che siamo imbevuti, noi lo pensiamo, della dottrina sulla Chiesa, a noi data dalla grande lezione del recente Concilio, dobbiamo certo ricordare come la santità sia al tempo stesso una proprietà della Chiesa, cioè un suo misterioso modo d’essere derivante dalla sua vocazione di Popolo di Dio, dall’alleanza che Dio ha istituito con quella parte di umanità da Lui eletta, favorita, santificata appunto ed amata (Cfr. Eph. 5, 26-27) e chiamata Chiesa, Sposa e Corpo mistico di Cristo, inesauribile sacramento, cioè segno e strumento, di salvezza; e come la santità sia perciò anche una nota della Chiesa, vale a dire una qualità esteriore, una bellezza riconoscibile, un argomento apologetico atto a impressionare storicamente e socialmente gli uomini che lo osservano con occhio onesto e capace di ravvisare, dove sono, i valori spirituali (Cfr. Lumen Gentium, 9, etc.).

La Chiesa, nel pensiero di Dio, è santa, cioè a lui associata, animata dal suo Spirito, rivestita d’una bellezza trascendente e derivante dall’armonia delle sue linee costitutive rispondenti al disegno divino, e perciò sacra e sempre religiosamente rivolta al culto divino e all’osservanza della divina volontà (Cfr. S. TH. II-IIæ, 81, 8). È santa nella sua natura. È santa nelle verità divine a lei consegnate e da lei insegnate. È santa specialmente nei suoi sacramenti, mediante i quali santifica gli uomini. È santa nella sua liturgia e nella sua preghiera. È santa nella sua legge, cioè nella pedagogia con cui guida gli uomini a camminare sui sentieri del Vangelo e a vivere nella carità. Ma questa santità, che possiamo chiamare attiva, è intesa a produrre la santità, che possiamo chiamare derivata (se non del tutto passiva) (Cfr. DENZ-SCH. 2201, ss.) dei membri che compongono la Chiesa, cioè degli uomini, i quali, anche nell’ordine della grazia, restano liberi, anzi sono invitati, aiutati, impegnati a fare uso quanto mai cosciente ed assiduo della loro libertà, cioè a compiere in se stessi, il precetto sommo ed urgente dello amore di Dio e quello che vi è collegato dell’amore del prossimo, con tutti i doveri che, secondo le circostanze nelle quali uno si trova, da quelli derivano.

Alla santità costitutiva della Chiesa deve corrispondere la santità praticata dei suoi membri. Che è quanto dire: non solo la Chiesa è santa per se stessa, ma noi che le apparteniamo e la componiamo dobbiamo dimostrarla santa per noi stessi; cioè noi, individui, organi e comunità, dobbiamo essere santi.
Questa necessità relativa alle persone, in fieri risulta da una necessità più profonda, in atto, relativa all’autenticità interiore: la santità, come dicevamo, propria dell’istituzione ecclesiastica. La nostra fedeltà alla Chiesa comporta anche questo piano di vita: bisogna essere santi. Il programma della vita cristiana non tollera mediocrità; è tremenda, a questo riguardo la parola dell’Apocalisse, che dice: «Io conosco le tue opere, e so che tu non sei né freddo, né fervente; . . . ma poiché sei tiepido . . . io sto per vomitarti dalla mia bocca» (Apoc. 3, 15-16). Santi di nome erano qualificati i primi cristiani, ammessi alla comunione ecclesiale di fede e di grazia, e sapevano che come tali dovevano comportarsi. Ancor oggi nelle nuove comunità missionarie è coltivata questa mentalità, che obbliga a conformare il modo di vivere alle esigenze assunte del nuovo stile di vita, lo stile cristiano. Viene spontanea la domanda: come si può imporre un dovere così grave a gente di questo mondo, della quale conosciamo la pigrizia, anzi l’inettitudine verso i grandi ideali, verso quelli morali specialmente, che non vagano nelle speculazioni utopistiche, ma esigono applicazioni pratiche e concrete nella vita vissuta, e conosciamo parimente la fragilità nella coerenza operativa e l’illusoria felicità di assecondare le proprie passioni e gli stimoli dell’interesse e del piacere ? È esatta un’interpretazione della vita cristiana così severa? Non è la legge evangelica condiscendente con la debolezza umana? Liberatrice dai pesi del giuridismo e del moralismo? Quale lunga risposta esigerebbe una così complessa e radicale questione! Rispondiamo per ora molto sommariamente.

La vita cristiana, si, è liberatrice dal peso di norme superflue alla perfezione, che sostanzialmente consiste nella carità (Cfr. Col. 3, 14), e che denuncia nel farisaismo un’ipocrisia intollerabile (Cfr. Matth. 23); ma non è lassista, anzi è moralmente seria e severa: si legga il discorso della montagna. Essa è tutta tendente ad una perfezione, che comincia dall’interno dell’uomo e che perciò impegna l’orientamento della libertà fino dalle sue prime radici, dal cuore (Ibid. 15). Ma dobbiamo tener conto, innanzi tutto, che l’azione umana del cristiano gode di un sussidio interiore meraviglioso e incalcolabile, la grazia; non dice il Maestro per confortare i discepoli, impauriti delle esigenze della morale evangelica: «Questo è impossibile presso gli uomini, ma presso Dio ogni cosa è possibile?» (Matth. 19, 26). Questo è un punto capitale per il seguace di Cristo e per tutta la dottrina e la pratica della vita e della perfezione cristiana, cioè per la conquista della santità, La grazia rende lieve e soave il giogo di Cristo (Cfr. Matth. 11, 30). La grazia operante nello spirito umano ne moltiplica le forze, fino a rendere amabile il sacrificio di se, la povertà, la castità, l’obbedienza, la croce. E poi possiamo aggiungere che la santità a noi richiesta non è quella dei «miracoli», cioè dei fenomeni straordinari, ma quella della volontà buona e ferma che in ogni vicenda ordinaria del vivere comune cerca la dirittura logica della ricerca della volontà divina.

Ed è di questa dirittura che vorremmo parlare, contentandoci di affermare ch’essa è la «testimonianza cristiana», di cui tanto si scrive e si discorre. È di questa santità che ha bisogno oggi la Chiesa: l’apologia dei fatti, degli esempi, della virtù trasparente, alla quale anche quelli che ci circondano danno riconoscimento e lo riferiscono a Dio (Ibid. 5, 16). Ed è questa santità, questa integrità di carattere cristiano, che rende, anche nel nostro mondo, profano e spesso ostile e corrotto, attendibile, come oggi si dice, il messaggio della Chiesa.

Questa santità, figli carissimi, cordialmente, caldamente, a voi raccomandiamo con la nostra Benedizione Apostolica.



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