I santi della nostra terra


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Mard62
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I santi della nostra terra

Messaggio da Mard62 » lunedì 23 febbraio 2009, 16:45

Lucia è la "mia" santa, sono molto legata a lei e alle Maestre Pie. Amo la sua personalità battagliera e anticonformista, il suo coraggio, sempre pronta a combattere con il crocifisso in mano. Una donna con un carisma particolare, la gente parlava con lei e si convertiva. Ha donato la vita per la formazione delle fanciulle, la conversione delle prostitute, entrava nelle cantine per parlare con gli ubriaconi e far conoscere loro Dio. La sua statua è in una nicchia all'interno della Basilica di San Pietro fra i Santi Fondatori. È entrata anche nella mia vita prima della conversione. Ve la volevo presentare.


La Filippini, non contenta di dedicarsi alla scuola, alla formazione delle aspiranti alla vita religiosa, agli esercizi di pietà, estese il suo zelo anche alle donne di Montefiascone. Per abituarle a vincere il rispetto umano, le radunava nei giorni di festa percorrendo le vie della città con un crocifisso in mano e facendo suonare ogni tanto un campanello da chi l'accompagnava. Al canto delle Litanie le conduceva in chiesa per la spiegazione della dottrina cristiana, e in duomo per la recita del rosario e il canto dei Vespri. Compiva così quanto il cardinale le aveva scritto pensando alle rovine della sua diocesi: "Lucia, Lucia, andate per tutte le strade e per tutte le piazze, e cercate storpi, zoppi e deboli, e fate che questo luogo sia pieno".




Corneto, dal 1922 Tarquinia (Viterbo), famosa per la sua necropoli etrusca, diede i natali il 13-1-1672 a questa santa, l'ultima dei 5 figli del genovese Filippo. Ella fu battezzata lo stesso giorno in cui nacque dal canonico Michele, suo zio e preposto della cattedrale, con il nome di Lucia. A 7 anni la piccina rimase orfana dei genitori. Si presero cura di lei gli zii materni, e ramarono per la singolare modestia e la soavità di temperamento. Quando ne provocava lo sdegno, era commovente vederla inginocchiarsi davanti a loro e ripetere, fino ad infastidirli; "Perdonatemi, per amore di Dio".
La Filippini imparò presto ad accostarsi al sacramento della confessione frequentando il monastero di Santa Lucia, in cui le benedettine educavano le fanciulle di buona famiglia. Tutte le domeniche prendeva parte in parrocchia alle spiegazioni del catechismo e fu tanto grande il profitto che ne ricavò, che il curato la incaricò d'insegnarlo alle più piccine. A esse parlava con tanta persuasione delle sofferenze di Gesù da muovere sovente alle lacrime. Chi indicò a Lucia la via sicura da seguire fu il cardinale Marcantonio Barbarigo (+1706), nominato dal Beato Innocenzo XI (+1689) vescovo di Montefiascone e Corneto, Quando costui fece la prima visita pastorale in quest'ultima città (1688), la Filippini contava sedici anni. Avendo saputo che nutriva in sé un grande ideale di perfezione, la fece entrare come educanda nel monastero di Santa Chiara in Montefiascone, fondato nel 1630 da un cappuccino, con 5 penitenti senza clausura.
Sotto la direzione del cardinale, che pensava servirsi di lei per la riforma di quel monastero rilassato nella disciplina. Lucia si diede all'acquisto delle virtù con la fuga dell'ozio e il disprezzo delle vanità femminili. Essendosi accorta che alcune religiose non sapevano né leggere né scrivere, e che altre facilmente cadevano nello scoraggiamento, si accinse ad ammaestrare le une, e a consolare le altre con pazienza e con amore. Non stupisce perciò che esse la considerassero come "un angelo". A 20 anni Lucia, pur non pensando a sposarsi come sua sorella Elisabetta, non sapeva ancora a quale partito appigliarsi. Talora pensava di farsi monaca, ma nel prendere siffatta risoluzione non provava pace e tranquillità di spirito.
Il cardinale Barbarigo aveva pensato di erigere, in tutti i paesi della diocesi, delle scuole per l'educazione della gioventù femminile. Quando seppe che in Viterbo la Beata Rosa Venerini (+1728), con l'aiuto dei Gesuiti, aveva già attuato quanto egli stava progettando, la chiamò a Montefiascone perché avviasse delle giovani a diventare Maestre Pie, e aprisse delle scuole nella sua diocesi. La Venerini lo accontentò per 2 anni, ma quando la sua istituzione a Viterbo fu dilaniata dallo scisma, ella si vide costretta a farvi ritorno (1704). La direzione delle scuole fondate fu affidata a Lucia Filippini per volere del cardinale, che le sosteneva, e per suggerimento della Venerini, che continuava a visitarle periodicamente. Lucia fu costretta ad abbandonare il monastero di Santa Chiara e a rivestire l'abito di Maestra Pia che il porporato stesso aveva ideato, ma fu tanto il turbamento e la ripugnanza che provò nell'assumere quel compito, che perse ben presto l'appetito, gonfiò come un otre e fu assalita da una febbre lenta e continua per oltre un anno. Quando guarì era libera dalle ripugnanze e dalle desolanti aridità. Poté riprendere gli esercizi della scuola con un metodo rinnovato dallo stesso cardinale.
La Filippini, non contenta di dedicarsi alla scuola, alla formazione delle aspiranti alla vita religiosa, agli esercizi di pietà, estese il suo zelo anche alle donne di Montefiascone. Per abituarle a vincere il rispetto umano, le radunava nei giorni di festa percorrendo le vie della città con un crocifisso in mano e facendo suonare ogni tanto un campanello da chi l'accompagnava. Al canto delle Litanie le conduceva in chiesa per la spiegazione della dottrina cristiana, e in duomo per la recita del rosario e il canto dei Vespri. Compiva così quanto il cardinale le aveva scritto pensando alle rovine della sua diocesi: "Lucia, Lucia, andate per tutte le strade e per tutte le piazze, e cercate storpi, zoppi e deboli, e fate che questo luogo sia pieno". Del resto, quando egli doveva recarsi in qualche parrocchia per la visita pastorale, voleva esservi preceduto dalla Santa perché si adoperasse a comporre le inimicizie, e lo informasse degli abusi colà esistenti. A quegli ordini la Santa, nemica dichiarata della propria libertà, ubbidiva sempre con prontezza, senza mai discutere.
Benché ancora giovane, Lucia Filippini dimostrò di possedere uno speciale intuito nel distinguere chi, tra le aspiranti, era adatta alla vita religiosa e chi no. Coloro che non sapevano morire alla propria volontà, le rimandava alle loro famiglie. Coloro che ammetteva alla vestizione religiosa, le conduceva con sé nelle scuole perché si formassero al loro specifico apostolato. Sovente diceva ad esse piangendo; "Ah, sorelle, che grande ufficio ha dato il Signore a noi povere donnicciuole". Perché fossero all'altezza della loro missione, una volta l'anno convocava tutte le suore a Montefiascone perché facessero gli esercizi spirituali sotto la direzione dei Pii Operai, fondati a Napoli nel 1606 dal Ven. Carlo Carata (+1633) senza voti. A tutte raccomandava di imparare a guadagnarsi il pane con le proprie mani, e a tutte imponeva l'uso di vesti confezionate senza lusso e ricercatezze.
Dopo che la Venerini aveva lasciato Montefiascone, il Barbarigo cercò di stabilire il centro delle Maestre Pie nel conservatorio di Santa Chiara fondendo insieme le due istituzioni sotto la guida di Lucia Filippini, ma il progetto falli sia perché le monache aspiravano alla vita contemplativa, e sia perché Lucia Filippini con le sue compagne aspirava alla vita attiva dell'insegnamento. Quando il cardinale morì (1706) la Santa fu confermata superiora generale di tutte le Maestre Pie dal nuovo Vescovo, Sebastiano Pompilio Bonaventura, il quale si prese cura delle loro scuole e le mantenne a proprie spese rendendole indipendenti da Rosa Venerini. La prima casa fuori diocesi fu aperta a Roma nel 1707, vicino alla chiesa di San Lorenzolo ai Monti, retta dal Padre Tommaso Falcoia (+1743), Pio Operaio, più tardi vescovo di Castellamare e direttore spirituale di San Alfonso dè Liguori (+1787). Lucia la diresse per oltre 6 mesi con tanta abilità che quando fu costretta ad affidarla alla Venerini perché la sua presenza era richiesta a Montefiascone, le fanciulle per protesta la disertarono in massa.
Sotto la sapiente direzione della Filippini le Maestre Pie di Montefiascone si moltiplicarono, cosicché fu loro possibile estendere la loro azione apostolica in altre diocesi degli Stati pontifici, e anche in Toscana per volere del granduca Carlo III. Lucia però non si limitava ad aprire le scuole, ma le sorvegliava, le sosteneva in mezzo alle difficoltà e le provvedeva del necessario. Sovente andava a chiedere aiuto alla sua facoltosa sorella, Elisabetta. Se costei le domandava che cosa avesse fatto di quello che le aveva dato in precedenza. Lucia le rispondeva sorridendo: "Ah, mia buona sorella! Io ho mandato tutto in Paradiso!" Due volte l'anno visitava tutte le scuole a costo di indicibili sofferenze. Una volta fu sbalzata a terra dal somarello che cavalcava e si slogò un braccio. Un'altra volta rimase per strada sotto l'infuriare della tempesta perché il somarello si era rifiutato di camminare. Quando smarriva la strada si rifugiava in povere capanne, e non sempre riusciva a sottrarsi ai morsi dei cani.
Al suo arrivo la scuola diventava l'asilo anche delle donne sposate perché la Santa le convocava per addestrarle con gli esercizi spirituali alle opere buone. Parlava loro con tali accenti che a volte chi l'ascoltava la supplicava a terminare il suo discorso perché diversamente "avrebbero finito la vita per il tanto piangere". Mentre dava gli esercizi alle donne di Corneto, 5 di esse caddero a terra svenute per l'eccessivo singhiozzare. Ovunque giungeva, tutti bramavano ascoltarla. Nello sguardo, nel gesto, nel comportamento di lei c'era qualcosa di straordinario che colpiva e affascinava. Le donne di Veroli (Frosinone) furono tanto scosse dai suoi ragionamenti che dicevano: "Questa donna ci ha rubato il cuore. Noi staremmo senza mangiare e senza dormire solamente per sentirla e rimanere con lei".
Nella conversione dei peccatori ella contese la palma a San Leonardo da Portomaurizio (+1751). Ovunque giungeva, si recava a visitare i malati e a soccorrere i poveri. A contatto della sua anima tutta fuoco non c'erano disperati che non si aprissero alla fiducia. Per non vedere offeso Dio, Lucia avrebbe dato volentieri la vita. Quando sapeva che in qualche casa c'era una tresca, vi si recava senza timore, metteva in fuga gli uomini, rampognava le donne, e rompeva gli strumenti musicali o li portava con sé nelle scuole. Durante i suoi viaggi in Toscana le capitava d'incontrare eretici ed ebrei. Se aveva modo di avvicinarne qualcuno non si tratteneva dal dirgli: "Figlio, riconosci il tuo Dio! Abbi pietà dell'anima tua! O, quanto ho compassione del tuo misero stato!". Sovente fu udita sospirare: "Io bramerei moltiplicarmi in ogni angolo della terra per potere gridare dappertutto, e dire a tutte le genti; Amate Iddio! O mio Dio! e perché non fai tu che io diventi tante Lucie, sicché moltiplicandomi possa altresì dappertutto dilatare la tua gloria?".
Alla base di tanto ardore apostolico, c'era una intensa vita di preghiera e di mortificazione. Di notte Lucia Filippini dormiva pochissimo, per fare continui atti di amore di Dio. A mensa era talmente parca nel cibo che le suore non sapevano spiegarsi come potesse sobbarcarsi tante fatiche. Tre giorni la settimana e nelle vigilie delle feste del Signore e della Madonna, digiunava a pane nero, erbe o fave cotte senza condimento, nonostante la malferma salute. Più volte la settimana faceva scempio dei proprio corpo con i flagelli. Se le suore le nascondevano gli strumenti di penitenza, allora, pur di patire qualcosa per amore di Gesù, si dava degli schiaffi, si strappava i capelli o sbatteva con violenza le mani.
L'esistenza di Lucia era una continua elevazione a Dio. Quando udiva parlare della Passione di Gesù, dei benefici del Signore e della triste sorte degl'infedeli, prorompeva tanto di frequente in pianto che le religiose, ignare del dono delle lacrime da lei ricevuto dal Signore, dicevano che la loro superiora stava sempre cantando "i treni" di Geremia. In Chiesa, davanti al Santissimo Sacramento, Lucia si abbandonava talora a tali atti di ebbrezza spirituale "da sembrare impazzita". Quando la mattina non poteva fare la comunione, restava tutto il giorno immersa nella tristezza. A Pitigliano (Grosseto), essendo entrata un giorno in chiesa per ascoltare la Messa, provò grande pena al vedere che il sacerdote si recava a celebrarla ad un altare in cui non era conservato il Santissimo Sacramento. Iddio ricompensò con un prodigio l'ardente desiderio che aveva di riceverlo nella comunione. Difatti, alla frazione dell'ostia, la particella che il celebrante stava per lasciare cadere nel calice, andò a posarsi sulla lingua di lei con grande meraviglia di chi l'accompagnava.
Accesa in volto, talora Lucia diceva: "Mio Dio, ti amo tanto che vorrei che le mie ossa fossero lampade, il mio sangue olio e la mia carne stoppino, e vorrei come una lampada accesa abbruciare e consumarmi tutta nel tuo amore. Vorrei che tutte le mie vene e arterie fossero tante catene d'oro, e con esse vorrei legarmi talmente a te da non potermi affatto disciogliere per tutta l'eternità".
Una prova del suo grande amore per il Signore era costituita dagli atti che faceva per conformarsi alla volontà di lui. "Mio Dio - annotava – non si faccia mai la mia volontà perché è sempre perversa, e solo cerca il comodo suo, ma si faccia la tua in me, che è solamente la buona, la Santa, e che cerca il mio vero bene. - Volentieri accetto questo poco patire dalle mani di Dio, mi metterei persino in croce e mi lascerei crocifiggere per Gesù Cristo, come tanto volentieri fece Lui per me, non essendo conveniente che goda la sposa, quando lo sposo sta fra le spine e i tormenti. - Accetto volentieri tutte le aridità di spirito, tutte le tribolazioni interne ed esterne, l'essere privata di qualsiasi consolazione celeste e umana, perché non è degna d'essere consolata quella creatura, che tante volte amareggiò il suo Creatore coi suoi peccati. - Se sapessi che fosse volontà di Dio che io stessi eternamente nell'inferno, volentieri eleggerei luogo, mi ci butterei persino da me stessa per fare la divina volontà, e benché patissi, non vorrei uscire da quel luogo di tormenti, per compiacere al mio Dio, purché però ci dovessi andare senza peccati, né ivi avessi da odiarlo, ma benedirlo e ringraziarlo".
Nonostante l'esercizio eroico di tante virtù Lucia amava chiamarsi 'povera', 'miserabilè, 'infamè, 'scellerata', capace soltanto di guastare l'opera di Dio. Non voleva essere chiamata con il titolo di "Maestra" perché considerava la carica di superiora troppo nobile e ardua per una "donnicciuola" come lei. Quasi fosse l'ultima della Congregazione, non si vergognava di attendere ai compiti più umili, dimostrando con i fatti di reputarsi la serva delle Maestre. Quando si recava a visitare le scuole voleva sempre baciare la mano alla superiora del luogo e, se doveva fare delle ammonizioni, chiedeva scusa alle suore dei cattivi esempi dati e si mostrava riconoscente delle correzioni che a loro volta le facevano.
Dio ricompensò tanta umiltà dando a Lucia il dono delle guarigioni, dei miracoli e della conoscenza delle cose occulte. Difatti è umanamente impossibile spiegare come facesse a svelare peccati occulti, a conoscere gli inconvenienti che sorgevano o le mancanze che si commettevano nelle scuole, a prevedere che il Monte di Pietà di Montefiascone sarebbe stato derubato e, quindi, che era necessario per le Maestre Pie ritirare il denaro che vi avevano posto.
Negli ultimi 5 anni di vita un cancro al seno cagionò alla Santa spasimi indicibili. A Roma fu visitata da medici valenti, ma le cure che le ordinarono a nulla giovarono. Durante la malattia ella non cessò di compiere i suoi doveri di superiora e di visitatrice delle scuole. Per i suoi viaggi si serviva di un somarello nonostante le proteste dei parenti, nobili, che non erano in grado di comprendere come lei il valore del disprezzo dei beni e delle comodità terrene. Incapace di stare in ozio, anche quando fu costretta a rimanere a letto, faceva entrare nella sua stanza, attigua alla scuola, le fanciulle e le donne per insegnare loro il catechismo o dare gli esercizi con i soliti frutti spirituali.
Lucia Filippini morì il 25-3-1732 a Montefiascone dopo avere più volte invitato le suore che l'assistevano a cantare con lei il Te Deum ed il Benedicite, in ringraziamento a Dio dell'incurabile morbo. Due donne gravemente inferme, l'una alla gola e l'altra ad un braccio, riacquistarono improvvisamente la salute a contatto di un lembo del vestito della defunta. La cofondatrice delle Maestre Pie fu seppellita nella cattedrale.
Nel 1858, a 126 anni dalla morte, il suo corpo fu riesumato e trovato ancora intatto. Pio XI, beatificò la Filippini il 13-6-1926 e la canonizzò il 22-6-1930. Il suo corpo è esposto alla venerazione dei fedeli nella cripta del duomo di Montefiascone


Mard62

Che tutti siano "uno"... affinché il mondo creda.

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