Pagina 1 di 1

II Domenica di Quaresima (Anno B) (01/03/2015)

Inviato: sabato 28 febbraio 2015, 13:06
da Enricorns2
II Domenica di Quaresima (Anno B) (01/03/2015) - Rito Ambrosiano

Vangelo: Dt 5,1-2.6-21; Ef 4,1-7; Gv 4,5-42 (Vangelo: )



Deuteronomio 5,1-2.6-21
Il Deuteronomio (significa "seconda legge") è un libro preziosissimo poiché è il libro per eccellenza della Parola di Dio. Gli Ebrei lo chiamano "Debarim" ("Le Parole"). Per obbligo il re doveva tenere presso di sé una copia della Legge ( "questa seconda Legge") come guida del suo governo e della sua condotta (Deut. 17,18). Di fatto, in questo libro, Mosé proclama al suo popolo "le leggi e le norme" ricevute dal Signore come clausole dell'Alleanza, stabilita sull'Oreb.
Israele, convocato da Mosè, è invitato ad ascoltare: "Ascolta Israele". La proclamazione è in un'assemblea che ha il compito di sancire il patto. Questa formulazione del Decalogo è simile all'altra del libro dell'Esodo (20,2-17).
Dio vuole aiutare il suo popolo a conquistare e a mantenere la pace, la terra, la stabilità.
Legislatore è quel Dio che "ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile".
Perciò "fidati e ricorri alla legge quando troverai difficoltà". Compito del credente, infatti, è "imparare, custodire e mettere in pratica la Parola" (v 1).

* Imparare suppone la volontà e l'intelligenza sufficienti per entrare nel mondo della legge, dar credito, fidarsi, analizzare e ricordare. Imparare è più di leggere e più di capir, ma significa "far propria la legge, sentirsi attenti".

* Custodire fa intravedere la preziosità per valore o per affetto. Non va perso nulla. Va tenuto in serbo, pronto e conosciuto per tutto quello che può servire. Non va dimenticato che è una raccomandazione di Dio.

* Mettere in pratica è la prospettiva finale della legge per cui il popolo sperimenta il valore della Parola di Dio in concreto. E' a questo livello che si incominciano a vedere i frutti del dono dato da Dio. La fedeltà custodita manterrà l'Alleanza, reciprocamente decisa da Dio e dal popolo, e svilupperà le promesse di Dio. Qui ci sono le "dieci parole", tante quante le dita delle due mani, tante per l'operosità di un popolo che cresce alla luce del Dio creatore e liberatore.

Simile all'altra edizione del libro dell'Esodo (20,2-17), ripercorre i fondamentali doveri religiosi e morali dell'uomo verso Dio e il prossimo. Qualche variazione, nel libro del Deuteronomio (che leggiamo oggi), è data dalla preoccupazione di rendere più attuale e viva la Parola di Dio.
"Sono un Dio geloso" sottolinea esclusività della scelta e del suo amore e quindi la considerazione preziosa di questo piccolo popolo, schiavo, che Dio libera. Ma è un Salvatore misericordioso che arriva a perdonare mille volte. E si preoccupa del riposo nel sabato con particolare insistenza, allargando il riposo al forestiero, agli schiavi e quindi agli animali. Qui si aggiunge, rispetto al testo dell'Esodo: "Il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te". E il significato è la pacificazione rispetto alla stessa schiavitù che va ricordata come dramma nel proprio vissuto e che non deve pesare sugli altri. "Ricordati che sei stato schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato" (v 15). Il giorno del sabato è il superamento della schiavitù, il coraggio del custodire il creato (compito dell'umanità: "coltivare e custodire il creato" (Gen 2,15). Nel sabato ci si ferma per ricuperare la fondamentale dignità e unità del genere umano, il superamento dell'ingordigia del lavoro ossessivo, il rispetto del mondo che ci è stato affidato.
Nella linea del desiderio c'è un progresso di valore. Qui si fa precedere il rispetto "della moglie del prossimo" e poi il resto che è proprietà, mentre nel libro dell'Esodo si fonde tutto in proprietà: "non desiderare la casa, la moglie, schiavi e bestiame" (20,27). Si stempera, così, la visione arcaica, maschilista, che riduceva la donna a un bene di proprietà della famiglia.
La legge è data da chi ti ama in pienezza e ti libera e ti vuole grande. Perciò la legge non solo va rispettata, ma va amata. Essa ti è data dal tuo creatore e liberatore.

Efesini 4,1-7
Paolo, che ci richiama la sua prigionia per la testimonianza a Gesù, incoraggia i cristiani a camminare secondo la vocazione ricevuta da Gesù stesso in maniera degna. Egli vuole garantire che ci sono valori e prospettive su cui egli stesso si sta giocando nella sua esistenza, da tempo, con fedeltà. Perciò il primo segno è l'umiltà: disponibilità a servire per innalzare ogni fratello povero e servirlo nelle sue scelte. Poi rammenta la dolcezza e la magnanimità: ricorda che non si deve essere litigiosi né irascibili, con la pretesa di aver sempre ragione.
Come Gesù, bisogna saper rinunciare alla aggressività ed alla violenza per cercare l'unità, la riconciliazione e la pace.
Il nostro mondo è continuamente percorso dalla violenza perché vuole prevalere sugli altri e si creano conflitti spesso insanabili. Il rapporto con il prossimo è soggetto ad attentati di prevaricazioni, di rivincite, di gelosie e di prevaricazioni per superare, mettersi in mostra, conquistare credibilità e successo.
Nella seconda parte del testo (vv.4-6) veniamo aiutati a scoprire le ragioni che debbono portare all'unità i credenti. Paolo ne elenca sette, proponendo un preciso numero di pienezza e, insieme, di unità: "Un solo corpo, spirito, speranza, Signore, fede, battesimo, Dio Padre di tutti".
Tale unità non si basa su simpatie o interessi reciproci. In fondo la storia ci ha mostrato quanto facilmente si siano sviluppati dissensi, professioni di fede diverse, faticosi itinerari di collaborazioni e di ricerche comuni, superamento di differenze di razza, lingua, cultura, mentalità, carattere, condizioni economiche.
A volte si resta sconcertati per lotte e massacri che avvengono tra cristiani, e nel modo più impressionante: a parte le due ultime guerre mondiali, svolte tra nazioni cristiane (ma questo non lo si rileva mai), ultimamente le guerre e i massacri in Congo, in Iugoslavia, e via via, in Libano, in Siria, in Egitto sono state terribili realtà di morte. Il fatto che queste morti fossero avvenute nonostante l'unità di fede e l'insegnamento dell'amore del prossimo non ha sfiorato per niente la coscienza dei contendenti e non ha fatto problema.
Il Concilio ha aperto spiragli coraggiosi e significativi, ma c'è molta strada da fare, compresa quella delle responsabilità, delle mediazioni, dei dialoghi, delle analisi e aperture di speranza e di credito, di strategie, di intuizioni, di scelte.
Ultimamente noti opinionisti, nell'affacciarsi del problema libico, ci stanno rimproverando il nostro rifiuto alla guerra, prendendo con ironia la famosa condanna di Benedetto XV su "l'inutile strage" della guerra del 1914.
Vanno riprese e affinate nuove strade per ridimensionare e ricondurre a mai usate strategie con coraggiose solidarietà sia nell'esperienza dell'Europa sempre più maturata e sia nel coinvolgimento dell'ONU. Vanno favoriti gli incontri, gli aiuti reciproci, la collaborazione. A ciascuno di noi sono stati dati doni particolari. Mantenendo con coraggio l'unità e l'accoglienza, questi doni si moltiplicano e diventano testimonianza, capaci di portare speranza nel mondo. Tutto questo è segno e premessa di pace.
C'è un grande nemico dentro di noi: la paura dell'altro, la paura di non farcela, la paura di non essere capiti, di essere equivocati. E poi di paure ne sorgono tantissime. Esse paralizzano il nostro cammino e i tentativi di novità. Gesù ha insistito sul non avere paura e Paolo l'ha sperimentato nel suo cammino. Lo dice ai suoi fratelli e sorelle cristiani: "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»" (Rom 8,15). Ma esiste anche la paura che noi immettiamo negli altri: un conto sono la riflessione e la sapienza e un conto è la paura che scoraggia, dissuade e fa fuggire senza saper affrontare una situazione coerente.

Giovanni 4,5-42
Mi colpisce sempre il fatto che i concittadini della donna samaritana le credano immediatamente quando li esorta ad andare a vedere '"l'uomo che le ha detto tutto quello che ha fatto". "Che sia lui il Messia?"
Non le fanno nessuna obiezione né si trincerano dietro il fatto che è di dubbia reputazione: il che vuol dire che la samaritana ha saputo creare sulla sua persona rispetto e fiducia.
Anche Gesù la tratta con rispetto e senso della sua dignità, indipendentemente dal suo essere donna, per di più straniera ed eretica (così gli ebrei consideravano i samaritani) e le rivolge la parola, cosa assai compromettente e invisa dalle regole ebraiche, tanto che i discepoli si meravigliano "che parlasse con una donna".
Al di là delle interpretazioni moralistiche e teologiche dell'episodio, questo testo mette al centro la considerazione che Gesù attribuisce alla donna: le parla, le chiede da bere, intavola con lei un discorso di fede, la considera una interlocutrice a tutti gli effetti e con lei s'incammina in un progressivo incontro che introduce la donna a percepire il significato vero del rapporto con Dio. Non ci sono più barriere di tipo dottrinale o schematismi di definizioni: Dio è un "dono" che viene offerto a chi lo ricerca con sincerità e in profondità e non si sofferma sulle precisazioni cultuali e campanilistiche come se fossero essenziali a questa ricerca.
Tutto il tema dell'acqua viva, che disseta sia Gesù che la dà sia la samaritana che la riceve, è un impetuoso richiamo alla vita: non può esistere fede vera se non "zampilla" come vita, una vita permanente, una vita che non muore.
Chi vi attinge -ma è acqua viva per tutti- non può, a sua volta, che traboccare di vita e correre a condividere l'incontro sorprendente e inaspettato con gli abituali compagni di vita e di cammino, con gli abitanti della città. Perché la vita è per tutti e una donna lo sa.
E sono belle anche la semplicità e la naturalezza con cui la samaritana cede il passo alla presenza di Gesù, senza pretendere o arrogarsi alcun merito o alcuna precedenza.
Perché ciò che conta è giungere direttamente a conoscere il Signore e capire che è il "salvatore del mondo".

don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini (Vangelo)