— Non c’era luogo per essi nell’albergo. —
Ho sentito sonare la zampogna dei monti. Non era cominciato il crepuscolo mattutino. S’udiva sul lastrico appena appena qualche scalpiccio che pareva d’uomini già stanchi sin dal primo principio della faticosa giornata. In uno di quei fondi ove, oltre tutto il resto, manca l’aria, ardeva un lume rosso. Di là dentro veniva quel dolce suono d’organo pastorale antico come gli antichi pastori che erravano con le greggi prime addomesticate. Ne usciva la voce mesta e soave della fanciullezza del genere umano, della fanciullezza d’ognun di noi con quell’accorarsi non si sapeva perché, con quello sperare non si sapeva di che, con quel bisogno improvviso di godersi a piangere al collo della madre, chi l’aveva ancora.
Le stelle brillavano ancora nel cielo così bello e puro. Quel canto di zampogna pareva dovesse avere un’eco nel firmamento. Quel focherello di quaggiù, così umile e rossastro, pareva avere un perché di cui le stelle di lassù, così limpide e d’oro, fossero consapevoli.
Di li a poco le stelle impallidirono e scomparvero insensibilmente. Il lumino si spense e la sinfonia pastorale si tacque e il piccolo rito finì. E all’apparire dell’alba cominciò il tramestio e lo scalpitio soliti, con quel doloroso sforzo di voci strascicate, di piedi strascicati, di vite strascicate.
Era giorno, e tutto era come prima: l’oggi come il ieri e il domani.
(dai pensieri di Giovanni Pascoli)